La parabola del figliol prodigo

Il moralismo verso gli altri, la rigidità, il ritenersi meritevoli “facendo” con le proprie (inesistenti) forze, possono nascere da questo amore senza condizioni, salvatore, datore di vita, di Dio per me non ancora più pienamente scoperto. Ma che si può scoprire, per grazia, anche prestissimo, con semplicità, da neofiti della fede. Senza aver compiuto nè dover compiere chissà quale cammino. L’amore variamente visto come il calcolo matematico di cui sopra può ricordare il figlio maggiore della parabola (Lc 15, 11-32; i brani evangelici virgolettati sono qui mie traduzioni letterali dal testo greco). Mentre il Padre sta sempre sul limitare del confine oltre il quale invaderebbe la libertà dei suoi figli, a vegliare sul loro percorso. Desideroso di correre incontro al figlio che torna quando questi è ancora lontano, di riabbracciarlo “commosso nelle viscere”, di cadergli sul petto e di riempirlo di baci (Cfr Lc 15, 20 b). Di festeggiare anche con il vitello grasso. Ovvero Cristo, la sovrabbondante grazia della festa, dell’amore, del suo sano aiuto. E questo appena appena il figlio, anche in modo fragile e contraddittorio (“Io qui muoio di fame”, Lc 15, 17 b; quelli che il padre chiama servi per lui sono “salariati”, Lc 15, 17 a), si apre liberamente ad accoglierlo: “Risorgerò andrò da mio padre” (Lc 15, 18). I vangeli sono pieni di episodi di questo amore “scandaloso” di Dio per i suoi figli. La figura del figlio minore può venire dunque letta come quella di un peccatore volontario e consapevole, che vive da “insalvabile”; da “dissolto” dalla comunione (Cfr. Lc 15, 13). Ma il Padre veglia sul giovane con discrezione, comprensione, totale misericordia ed ogni possibile aiuto, fino al suo pieno ritrovarsi. Ma il minore si può anche vedere come una persona, compresa dal Padre (che non proferisce parola alla sua richiesta), che cerca la vita autentica, anche per vie sbagliate, vivendo da dissoluto (Lc 15, 13). Finchè le esperienze anche umane, la solitudine, le false e deludenti dipendenze (“Allora andò ad incollarsi ad uno degli abitanti di quella regione” Lc 15,15), lo stato confuso e ambiguo di debolezza, di bisogno, lo orientano a chiedere aiuto. Lo preparano anche nella carne, nel cuore, magari passando appunto per un bisogno ancora confuso e ambiguo, alla gradualmente più manifesta e consapevole esperienza dell’amore, dell’aiuto, senza condizioni del Padre. Si tratta insomma di quando viene finalmente il momento in cui Dio può toccare il cuore dell’uomo con una profonda grazia, mille volte più della germinale apertura dell’uomo stesso, perché però anche la propria esperienza umana ha aperto a costui il cuore a riconoscere e accogliere con gioia un dono così grande.

L’aiuto ad entrare nella gioia (il vestito più bello, originario), nella pace (l’anello al dito), nella leggerezza del lasciarsi portare da Dio (i calzari ai piedi). Dunque non per dovere, non per tradizionalismo. Essere amati, accogliere l’amore altrui, amare gli altri, per dovere è un po’ un controsenso, perché l’amore autentico può essere solo una scelta libera. Anche impegnativa talora, ma libera. Senza minacce e condizioni. E la vita, l’amore, possono essere solo un dono. Liberamente accolto. Ecco un’altra graduale scoperta del figlio minore, che all’inizio si era fatto consegnare la parte di vita, di “natura”, che gli “spettava” (Cfr. Lc 15, 12 a). “E il padre spezzò per loro la vita” (Lc 15, 12 b). Dunque un cuore non chiuso allo Spirito ma in cerca.

“Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo” (Lc 15, 31), dice il Padre al figlio maggiore. Ciò che viviamo di autentico è dono di Dio, è un errore attribuirlo a sé stessi. Non sento allora il bisogno dell’aiuto di Dio. E se glielo chiedo magari quasi quasi è per fargli un piacere. Neanche il figlio minore (neòteros = il “più giovane”; “il più anziano” = presbùteros) deve avere questo aiuto, secondo il fratello, se non meritandoselo con le sue forze. Cioè con un fare esteriore, senza che il più anziano nemmeno si preoccupi di non poter conoscere il cuore del ragazzo. Qui sta dunque un punto decisivo, mi pare, per scoprire Cristo. Come intuire la sua umanità, il suo amore, la sua comprensione, la sua misericordia totale, come intuire la via così divina e così umana della sua grazia, con il razionalismo, con il 2 + 2 = 4, con le astrattezze, gli schemi, le forzature, moralistiche, spiritualistiche? Con il nostro salvarci in realtà da soli, con il nostro fare? Il dono della grazia è il cuore divino e umano di Cristo. Per questo la storia anche di alcuni grandi profeti biblici, antico e neotestamentari sembra passare per l’esperienza di almeno un profondo stato di disorientamento, di debolezza umana, talora anche di un fallimento. Nel quale in un modo o nell’altro comprendo meglio che senza l’aiuto di Dio, delicato, totalmente comprensivo e misericordioso, proprio a misura per me, non posso assolutamente nulla. Nulla di bene, neanche un piccolo sorriso, è frutto della nostra bravura, ma è un immenso dono di Dio che ci fa vivere meglio con noi stessi, con gli altri. Senza di ciò saremmo dei poveri disperati, anzi, non saremmo proprio. Dopo tante imprese profetiche mirabolanti ma anche persecuzioni crescenti subite e in atto, il profeta Elia sperimenta una crisi che lo porta al desiderio, alla richiesta, di morire. “Prendi la mia vita, perchè io non sono migliore dei miei padri” (1 Re 19, 4). Ecco l’uomo, che non ha risorse sue. Invece di dirgli, senza comprenderlo: “Ah, ma così fai peccato e non puoi entrare in contatto con me” il Signore gli invia un angelo che per due volte lo sveglia dal sonno dello scoraggiamento, della sfiducia in Dio, e gli dà da mangiare e da bere (1 Re 19, 1-8). “Con la forza datagli da quel cibo, (Elia, NdR) camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb” (1Re 19, 8). Un cammino di crescita graduale, percorso grazie a quel pane.

Invece se in varia misura ci attribuiamo il merito dell’amore, se ci basiamo su di un fare in fondo esteriore, il dono possiamo talora vederlo come un’ingiustizia scandalosa e insana. Forse Gesù non risponde, a coloro che gli chiedono un segno per la sua autorità: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (Gv 2, 19). Forse dice: “Sciogliete questo tempio…”. Il verbo greco luo di per sé come primo significato ha, mi pare, sciogliere. Può risultare interessante valutare se e in che senso una proposta di liberazione amorevole dalle incrostazioni del cuore (= sclerocardia) viene invece variamente letta come distruzione. Certo può incidere molto in ciò il fatto che Gesù poi sia stato crocifisso. Ma forse Cristo intendeva qui per prima cosa la via pacifica, vitale. “Il padre uscì a pregarlo (il figlio maggiore, NdR)” (Lc 15, 28 b). Al figlio maggiore fa bene ricevere questa chiamata ma anche lui avrà bisogno di passare per il fallimento delle sue vie, come vediamo nella parabola immediatamente seguente dell’amministratore disonesto; “Bisognava far festa e rallegrarsi perchè questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15, 32). Tornato dai campi il figlio maggiore “udì le sinfonie e i cori” (Lc 15, 25), non la musica e le danze, come talora si traduce. E domandò ad un servo (lui usa il termine “infante” mentre di sé dice che “serve” il padre) “che roba fosse quella” (Lc 15, 26). Anche la comunione profonda può essere solo un dono dall’alto. I servi, poi, nelle parabole, quasi non si notano, sono stati resi sempre più canali del cuore del Padre. Come e nel vitello grasso, che dona la vita sino in fondo. “Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani ed i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: “Costui riceve i peccatori e mangia con loro”. Allora egli disse loro questa parabola” (Lc 15, 1-3). Il Signore ci aiuti, nella benevolenza reciproca, ad accogliere sempre più il suo vero cuore.