Clero: quale rapporto con le gerarchie?

Nella Chiesa nel rapporto per esempio di un sacerdote con le gerarchie potrebbe accadere di rilevare varie tipologie di atteggiamenti. Anche se poi le sfumature e le situazioni specifiche vanno considerate con attenzione.

Quello che mi pare un rapporto maturo e corretto consiste nel cercare di vivere la comunione, l’obbedienza, il dialogo e la condivisione che apprendono il buono dell’altro… Ma anche l’esprimere con delicatezza le proprie vedute all’interno delle libere opzioni, delle libere legittime domande talora, circa una fede cattolica.

Un vescovo ausiliare nel consiglio episcopale diocesano o, secondo l’opportuno, in un dialogo personale col vescovo titolare, può esprimere possibili vedute integrative, possibili modifiche, all’interno di una disponibilità ad eseguire quanto alla fine stabilito dal superiore, certo nei confini della fede cattolica e di una legittima correttezza di atteggiamenti.

Potrebbero darsi atteggiamenti che mi paiono distorti. L’assecondare tutte le opinioni del titolare o almeno quelle al di là delle quali il titolare colga un sentire cattolicamente consentito ma diverso. Le motivazioni che possono causare tali comportamenti sono molteplici ma, almeno in molti casi, paiono fragili. Per esempio non pare sano il bisogno di sentirsi in una cordata carrieristica o in uno stare sempre a galla nelle gerarchie che può comportare l’assumere le posizioni più diverse nel succedersi dei superiori.

Si potrebbe altresì riscontrare un atteggiamento esecutivo ossia silenzioso sul piano dei contenuti di fondo. Magari scambiandolo per spirito di obbedienza e di pace. Certo talora il buonsenso fa comprendere che non vi è reale possibilità di dialogo. Ma altresì per esempio può indicare l’opportunità di non farsi più facilmente cooptare celando le proprie vedute. Su questa scia si può considerare obbedienza, fede, la disponibilità, certo corretta, a lasciarsi mandare ovunque il vescovo possa inviare ma senza, qui sta la stortura, esprimere proprie preferenze. Il cammino di fede non ha fatto maturare in una tale persona carismi? Perché non fare conoscere le propensioni maturate, pur mettendosi in spirito di disponibilità ed obbedienza a fare altro? Si può risentire in certi casi di una spiritualità variamente meccanica e astratta, spersonalizzante.

Si può vivere per esempio una tendenza a considerare tante cose secondarie rispetto ad un non confliggere, tendenza che può giungere ad una grande superficialità e ad un mancato contributo ad una reale crescita. Si “incartano” le persone assecondandole quasi in tutto senza alcun criterio di serio, graduale, accompagnamento, senza un reciproco aiuto ad una crescita verso il vero. Atteggiamento non di rado tanto più errato verso i superiori. Anche qui si può talora trattare di tentativi di oltrepassamento di una mentalità schematica assorbita dall’educazione. Senza cercare le vie di un più adeguato discernimento.

Questo comportamento può in alcuni casi venire scelto strumentalmente, ritenendo per esempio determinante salire nelle gerarchie per difendere, sviluppare, una realtà cattolica a cui si appartiene. Anche qui si tratta di distorsioni.

Talora questi atteggiamenti variamente “zelighiani”, ossia spersonalizzati sono dovuti al bisogno di approvazione da parte dei superiori. Forme insane di dipendenza dal giudizio altrui. Incapacità di tendere a cogliere i doni degli altri senza farsi confondere dai loro limiti.

Come osservato spesso tali squilibri nascono al fondo dai limiti di una spiritualità cultura, per esempio al fondo razionalista. E possono dunque comportare anche reazioni errate opposte, come ribellioni e scorrettezze varie non mature nella fede. Si può talora trattare di sviluppi che vanno compresi e accompagnati nella direzione di una ricerca di un più adeguato superamento delle ferite sopra citate.